Posted by Sever:

“It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry”

Dalla redazione di www.periodicodayli.com

Non ne scrivono più di canzoni sui treni.
Fino 60 anni fa era diverso, quando le superbe stazioni art déco, disegnate dai più famosi architetti dell’epoca, rappresentavano in ogni città, anche quelle più sperdute e sole, il simbolo del progresso e del futuro; quando il treno stesso era un’icona di forza, velocità, potenza meccanica e avanguardia tecnica, il simbolo stesso del modernismo: al giorno d’oggi il treno come mezzo di trasporto viene snobbato ma nell’immaginario dei più romantici rimane ancora forte il suo fascino, le rotaie che significano voglia di fuga verso un mondo nuovo e migliore e sono espressione di sentimenti malinconici, speranzosi, forse illusi.



Il treno è una bestia indomita, potente, temibile, inesorabile, spettacolare.
L’introduzione e l’evoluzione di questo mezzo fu quello che è stato negli anni Novanta l’avvento di Internet, un modo per estendere i confini e collegare mondi fino ad allora incommensurabilmente lontani ed un notevole ampliamento degli orizzonti culturali e mentali; mi piace vederlo così, come lo vedevano una volta, e non come semplice mezzo di trasporto per pendolari, ma è molto difficile comprendere questi sentimenti a distanza di tempo senza raccontare cos’era il treno in America intorno agli anni 50.
Diceva un antico proverbio del Kansas che “ogni treno che passa va verso una terra magica”.
Con il suo rauco sibilo saluta la città, che sfiora soltanto, prima di scappare di nuovo come impazzito… me lo immagino, che se ne va via nel paesaggio americano, con la scia di fumo che lo rincorre verso l’orizzonte.
Pura poesia in movimento: l’avevano percepito molti folksinger e bluesmen dell’epoca, cantastorie di una società che in quegli anni attraversò cambiamenti radicali, che al treno hanno dedicato numerose ballate.
Woody Guthrie e il suo “discepolo” Bob Dylan ma anche molti altri, da Muddy Waters a Elvis Presley passando per Johnny Cash (che scrisse un album intitolato “Ride This Train” nel 1960) ecc… impressero con i loro banjo, dobro e mandolini un’immagine ricca di fascino.
Uno dei più grandi nomi della scena hill-billy, Jimmie Rodgers, detto ‘The Singing Brakeman’, svolgeva la professione di frenatore prima di doverla lasciare per motivi di salute e poter approdare anche se involontariamente ad una brillante anche se breve carriera musicale.
Nel suo repertorio furono tantissime le canzoni legate indissolubilmente ai treni:

“Waiting For A Train”

“Train Whistle Blues”

“Hobo Bill’s Last Ride”

rappresentano quello che fu un intenso rapporto di odio/amore verso i treni.
Certo il vecchio Jimmie non godette (tutt’ora) di grande fama ma lo stesso Elvis Presley in “Mistery Train” malediceva la locomotiva che gli aveva strappato la donna amata quando ormai l’aveva conquistata e chissà dove la stava portando…
“The Midnight Special” ripresa negli anni sessanta anche dai Creedence Clearwater Revival, è “un’ intensa ode alla libertà” a cui agognano i detenuti di un carcere vicino al quale ogni notte passa un treno e tutti i sogni e le speranze ad esso legati, un bagliore intenso di luce negli animi lugubri dei carcerati.
C’è chi dice che la strada dei treni è segnata, già scritta ma quando li vedo correre verso l’orizzonte e recedere fino a diventare puntini minuscoli e sparire, capisco che il percorso di un treno è implacabile e sconosciuto, forse sai dove va, ma non sai cosa attraversa, neanche se guardi il paesaggio fuori dal finestrino.
È forse questo lo stesso impulso che sente Hendrix mentre sente alla stazione
“il suo treno che sta per arrivare”:

Take me, yeah, from this lonesome place
Well now a whole lotta people put me down a lotta changes
My girl had called me a disgrace
The tears burnin
’
Tears burnin’ me
Tears burnin’ me way down in my heart
Well you know it’s too bad, little girl, it’s too bad, too bad we have to part
Gonna leave this town, yeah
Gotta leave this town
Gonna make a whole lotta money

Hendrix è dilaniato da questo impulso, deve separarsi dalla sua amata ma allo stesso tempo può scappare lontano dalle persone che non ama sicuro di fare tanti soldi.
Il treno è il mezzo dove si può incontrare l’insieme più variegato di persone possibile, ognuno con i suoi sogni, le sue storie e le sue esperienze.
Viaggiando su uno dei “Big Boy” della Union Pacific avrei potuto certamente incontrare un Hobo.
Ecco appunto, l’Hobo: il vagabondo che continuamente si spostava sui treni merci conducendo una vita fatta di stenti ma al tempo stesso ricca di avventura e magia.
Un Hobo è un vagabondo che adotta in maniera volontaria uno stile di vita da senzatetto improntato alla semplicità, al viaggio, all’avventura, alla ricerca interiore, alla marginalità.
Non è solo un lavoratore nomade, è anche uno che si gode la vita, un romantico nutrito di un immaginario potente, un pioniere, un esploratore, un pellegrino, un eremita.
Gente che va da qualche parte o solo dove gli capita? Non possiamo saperlo…
È quello che chiamavano al tempo anche “Cross-tie walker”, un viaggiatore errante che va alla stazione solo per farsi un giro in treno, senza rimpianti o aspettative, ma senza voler perder tempo, perchè il tempo passa ma non ritorna.
Robert Johnson, il più grande bluesman, era un Hobo. La sua voce, il suo “pianto” straziante, conteneva tutta la sofferenza per la perdita della moglie; proprio dopo quell’episodio ha cominciato a vagare colpito probabilmente dalla “Dromomania” la “malattia” che spinge chi ne è afflitto a peregrinare senza mai fermarsi guidato dall’enorme, irrefrenabile impulso di fuggire da tutto e tutti… in inglese si dice più dolcemente “wanderlust”.
Così Johnson se ne andò per il mondo, in mezzo a ogni sorta di pericolo, i treni merci, il vino, le donne, i piaceri…suonando la chitarra per consolarsi e rimediare soldi, bevendo whisky per scaldarsi o anche solo per ubriacarsi, cercando di amare più ragazze possibili nel minor tempo possibile.
Uno stile di vita libertino come quello condotto dal “giovane” Bob Dylan o, durante tutto il corso della sua vita, da Woody Guthrie, dedito a saltare di vagone in vagone con la sua chitarra “ammazza fascisti”.
Certo che è un mestiere difficile, l’hobo!
Ma più che un mestiere è uno stile di vita, una cultura; nasce negli Stati Uniti a inizio 900’ e rimane un fenomeno esclusivamente americano, coinvolgendo sia persone che viaggiano per svolgere lavori stagionali sia clandestini imbarcati sui treni merci alla ricerca di avventura, gente affamata di vita insomma!
Che importanza aveva se eri uno sbandato della Guerra Civile, un disoccupato o un orfano della Grande Depressione o che tu andassi da Nord a Sud o da Est a Ovest, l’importante era essere “On the Road” (cito il celeberrimo libro di Jack Kerouac), la strada era la tua casa.
Le rotte più battute erano quelle che seguivano i cantieri e le grandi ferrovie in costruzione attraversando gli States verso Ovest, o quelle che li tagliavano da Nord a Sud seguendo la stagione dei raccolti.
Certo con una chitarra in spalla o un’armonica in tasca era molto più facile per questi “travellin’ man” rimediare un passaggio in cambio di un po’ musica durante il viaggio.
La cultura Hobo, in una seconda fase, trova però molti praticanti anche tra i giovani irrequieti spinti non dalla necessità quanto da un’istanza libertaria, da un’insofferenza verso il conformismo e da uno spirito ribelle.
Ridimensionato il fenomeno del vagabondaggio endemico degli anni della crisi economica, la cultura hobo si stabilizza e diventa in qualche modo più consapevole acquisendo un taglio più romantico ed idealista ed accentuando gli aspetti quasi “anarchici” del gusto per l’avventura e di un certo esistenzialismo poetico ed allo stesso tempo torbido e tormentato; in seguito si sedimenta nel tempo come un insieme caratteristico di valori ed anche di linguaggi particolari ed emerge con gli scrittori e i cantautori degli anni cinquanta, la cosiddetta “Beat Generation”, la generazione maledetta.
È un legame indissolubile quello fra treni, hobo e musica folk; forse è proprio seguendo le ferrovie che si può trovare le radici dei sentimenti che ispirano queste ballate malinconiche e tutta la corrente di pensiero dell’epoca, “diacronica concezione futurista del provvisorio, dell’avanguardia, della socialità e della vita attiva”.
La domanda sorge spontanea ma non è così scontata: a che serve sbarazzarsi del mondo, quando nessuno mai sfugge al proprio destino di vita? Non sto parlando della morte, ma della vita, che va vissuta sincronicamente.
Kerouac stesso alla fine del suo libro deve fare i conti con la maturità, giunge allo snodo fondamentale della sua vita, il passaggio dalla sua movimentata, sfrenata e schizofrenica adolescenza alla “sedentarietà” responsabile e adulta: i treni non passano più per lui; anche Dylan si rende conto che “i tempi stanno cambiando”.
La rivoluzione spirituale, la fuga per non essere più avvelenato dalla civiltà, è compiuta: È bello fuggire se ti sembra giusto e se lo vuoi davvero perchè mentre ti lasci tutto alle spalle ti senti più vivo, la strada è sempre una rotaia sconfinata e il treno è una lunga promessa di libertà.
Ma quando sei in viaggio, il vagone diventa una gabbia senz’aria, il domani si trova esclusivamente su un binario che ti condurrà chissà dove ma solo dove vuole lui. Sei un equilibrista su quella rotaia, e puoi solo andare avanti.
“Sono stanco,
 sono ore che sto qui seduto immobile ad aspettare,
 penso che ci sono treni che partono oggi e si perdono nel passato,
 e viaggi mai iniziati, e addii ed incontri cercati, a volte non trovati, amori scoppiati e amori sbocciati. 
La pioggia ormai scandisce il mio tempo, ticchettando al ritmo dei secondi e il suo suono secco rimbomba dentro di me, nella mia mente…
mi alzo e cammino.
È tardi, 
poche sono le persone che ancora aspettano e sanno aspettare…
un uomo in divisa mi ferma, mi chiede chi sono, cosa faccio, dove vado. “Aspetto”- rispondo io.
Che strano il pensare ossessivo alla vita, mi colpisce nei momenti meno opportuni, e che brutta l’ombra della solitudine!
Non saprei come spiegare questa angoscia.
Saluto la stazione e me ne vado. Non è qui ciò che cercavo.
Continuo il mio viaggio, alla ricerca di qualcosa o di qualcuno, e penso a ciò che diceva Bob Dylan in una delle sue canzoni:
“ci vuole molto per ridere, basta un treno per piangere”;
i tempi cambiano ancora e ancora, non ne scrivono più di canzoni sui treni…”

 

 

ilGallo

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